IL PEZZO DI ROSELLA POSTORINO SU CAT POWER

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Il pezzo di Rosella Postorino su CAT POWER

Era Charlyn Marie Marshall, in principio, la ragazza del Sud coi genitori hippie e la Bibbia sul comodino. Era Chan, con quel viso Cherokee e la voce notturna, scorticante e purissima. Era Cat Power, quando ieri è salita sul palco con una T-shirt rossa e la scritta «people have the power», appunto. Ma per me sarà sempre Cat, la donna che alla mensa del Lucca Summer Festival, subito prima del concerto, giocava con un bambino biondo, di colpo si alzava da tavola e si lanciava a terra in ginocchio per imitare chissà chi, stringeva la mano di Matt Berninger e scoppiava a ridere con lui, gli faceva spazio sulla panca, poi sparecchiava attenta alla raccolta differenziata, e prima di uscire si lavava le mani con la bottiglietta d’acqua minerale. Cat è quella che quand’è su un palco mi fa stare sempre in pena: arriverà sino in fondo o scapperà un’altra volta? È quella che ieri al secondo pezzo dava già troppe indicazioni ai musicisti, proprio mentre cantava, faceva gesti con le braccia a segnalare chissà quale problema, e alla fine della canzone si è fermata minuti interi a discutere col chitarrista. Lo conosco, io, quel crinale, quando basta un passo per cadere da una parte o dall’altra, e rinunciare sembra l’unica risposta possibile alla paura che niente sia perfetto come dovrebbe, ma dopo che hai rinunciato ti senti sconfitta, in modo irreversibile. Cat no, però, lei ce la fa, riprende a cantare e chiede scusa: «I lost my temper», dice in inglese, «desolato», ripete in italiano. È la bambina che ha imparato presto a dire scusa, davanti all’ira della madre bipolare, e da allora non ha smesso mai. È la cantante che un’ora e mezza dopo, quando sul palco ci sono i National, Berninger cita accanto a L. Cohen, N. Cave, N. Young e T. Waits, in una sua personale top five. È la sposa senza velo che lancia bouquet bianchi al pubblico cantando Ruin: nel finale del suo concerto te la senti sempre addosso, quell’aria da superstite. Così quando, all’una di notte – in giro per Lucca con gli amici e un tipo brasiliano incontrato per strada che si è offerto di portarci a bere il Peschino, perché «bisogna sentirlo, diobono» – ho ancora in testa le immagini e i suoni dei due concerti, e rivedo Matt attraversare la folla correndo, lasciarsi toccare dai fan (si chiama gioia), o porgere il microfono al pubblico per fargli cantare, una voce incerta e coinvolta dopo l’altra, Vanderlyle Crybaby Geeks, che sotto quel cielo miracolato dalla pioggia sembra una preghiera (si chiama tenerezza), io penso a Cat, che non saprebbe farlo mai. Eppure la sua presenza, lassù, con quel suo corpo piccolo, mi arriva sempre come un urto, sia che occupi ogni spazio emotivo sia che scalpiti per andarsene. Non ho ancora capito se Cat è una che non ha paura di avere paura, o se ha soltanto paura di non averne mai più – come me. Rosella Postorino